Dopo Covid raddoppiati atti autolesivi tra under 18

09/10/2021

C’è chi sceglie le pillole. Benzodiazepine, ma anche l’insospettabile paracetamolo. E chi arriva a bere mezzo flacone di bagnoschiuma, o peggio di candeggina. Negli armadi di casa il materiale non manca se il chiodo fisso è farsi male, talvolta non con l’intento di farla finita ma per lanciare un grido disperato d’aiuto. A 12, 14, 18 anni, quando le difficoltà possono sembrare voragini capaci di inghiottire. Da qui in poi il copione si ripete: le luci dell’ambulanza, la corsa in pronto soccorso, la partita dei medici per salvare una vita, la telefonata col Centro antiveleni.  

“Dopo i mesi più bui dell’emergenza Covid una cosa è cambiata – spiega Carlo Locatelli, responsabile del Centro antiveleni e Centro nazionale di informazione tossicologica dell’Irccs Maugeri di Pavia – E’ la frequenza con cui ci sono stati segnalati episodi di intossicazioni a scopo autolesivo in cui gli autori sono minorenni: quasi raddoppiata”. I

n un’analisi realizzata per l’Adnkronos Salute, l’esperto ha messo a confronto i dati dei primi 4 mesi di più anni, prima e dopo la pandemia.
Se nel 2014, 2015 e 2016, tra gennaio e aprile si viaggiava al ritmo di circa 48-50 intossicazioni a scopo autolesivo al mese negli adolescenti, “nello stesso periodo del 2021 questo dato è salito a 86 casi mensili, con punte di 100 ad aprile”.  

L’osservatorio del centro pavese abbraccia il territorio nazionale da Nord a Sud. In 4 casi su 5 si tratta di ragazze, nell’80% colpisce l’assenza di fattori di rischio noti. “La maggioranza dei pazienti ha 15-18 anni, ma ce ne sono tanti fra i 13 e i 14 (sono la metà dei 18enni), una discreta minoranza di 12enni, casi eccezionali di 10-11enni”. Questi numeri, spiega Locatelli, vanno visti come una spia rossa che deve accendere l’attenzione sul disagio dei ragazzi. Non solo alla vigilia della Giornata mondiale della salute mentale che si celebra il 10 ottobre. Sul totale degli episodi accertati di intossicazione, il 22-23% avviene con l’utilizzo di prodotti domestici (candeggina, acido muriatico), il 4% con prodotti cosmetici (come lo shampoo, “che è pericoloso perché la schiuma che produce invade i polmoni”).  

Il grosso, 75%, sono intossicazioni da farmaci: in particolare per il 50-60% neurodepressori, benzodiazepine e così via, e per il 22-25% paracetamolo, quota quest’ultima “in crescita”. Questo farmaco viene ritenuto dai più innocuo, ma in realtà se preso in sovradosaggio può provocare per esempio danni al fegato molto gravi. “Nelle prime 24 ore l’intossicazione da paracetamolo dà banale vomito – spiega Locatelli – ma il problema è che dopo 24-48 ore salgono le transaminasi e comincia l’epatite acuta. E’ qualcosa paradossalmente di più subdolo. Se il paziente non ammette di averlo assunto, i medici rischiano di non accorgersene subito e di ritrovarsi due giorni dopo con un’epatite che non si riesce più a curare. Mentre se una persona prende un antidepressivo e non lo dice ha degli effetti su cuore e sistema nervoso, che indirizzano più facilmente a scoprirlo”. 

“Nei Pronto soccorso arrivano ragazzini che presentano sintomi psicopatologici o che hanno commesso dei gesti autolesivi. La problematica è aumentata”, conferma Carlo Fraticelli, direttore del Dipartimento Salute mentale e Dipendenze dell’Asst Lariana. “Anche noi nella nostra struttura abbiamo riscontrato un aumento di accessi nei pronto soccorso pediatrici, con un aumento delle consulenze degli specialisti di neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza. Da gennaio a giugno 2021 abbiamo avuto 166 accessi, in tutto il 2019 erano stati 280, rileviamo quindi un aumento del 30% circa rispetto all’anno pre-pandemia”. Il bacino servito dall’Asst è un’area di 600mila abitanti (quasi 100mila gli under 18).  

I bambini e gli adolescenti “hanno risentito in maniera significativa sul piano emotivo della condizione pandemica e delle misure di restrizione che sono state necessarie per contenere l’infezione”, riflette l’esperto, e questo ‘effetto lockdown’ “è stato confermato sia a livello nazionale che internazionale. Vanno ancora esplorati gli esiti a distanza: il disagio emotivo c’è stato e non siamo ancora in grado di vedere che cosa potrà accadere. Chi ha perso un familiare ha sicuramente una possibilità maggiore di presentare condizioni depressive in futuro, chi è stato infettato o ha passato momenti di grave difficoltà ha dovuto fronteggiare alti livelli di stress”.  

La paura dell’infezione, poi, “ha pesato tanto sui più piccoli, che temevano per i propri genitori (in particolare i figli di sanitari)”. Ci sono state, continua Fraticelli, “la frustrazione e la noia legate all’essere costretti a casa senza sapere che fare, la carenza di contatto faccia a faccia con amici, compagni e insegnanti, l’informazione che non è sempre stata adeguata, situazioni di spazio limitato, perdite economiche e finanziarie delle famiglie. La Dad è stata un vulnus”. 

E sicuramente la pandemia ha esacerbato le problematiche di “isolamento, attaccamento ai social, perdita di sonno e alterazione del ritmo sonno-veglia”, elenca Fraticelli. La Rete ha svolto un ruolo, “ma non solo in negativo, anche se l’uso di Internet e dei cellulari da parte dei più piccoli richiede stretta vigilanza”. In ogni caso, fra la prima ondata e quelle successive, “è cambiato il quadro”, fa notare l’esperto. Nel 2020 durante Covid, ripercorre Patrizia Conti, responsabile dell’Unità operativa complessa di Neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza dell’Asst Lariana, “sui minori abbiamo avuto una netta riduzione, specie nei nuovi accessi. C’era paura” anche di andare in ospedale.  

“Però abbiamo mantenuto i contatti coi nostri pazienti che, chiusi in casa senza scuola, erano in grande difficoltà. Le neuropsichiatrie infantili hanno lavorato tanto con interventi di telemedicina anche per bimbi molto piccoli. E’ stato d’aiuto pure ai genitori, per affrontare il lockdown”. Nell’estate 2020 “c’è stata una riattivazione delle risorse, un recupero dei rapporti sociali e non abbiamo avuto quell’aumento di accessi nella neuropsichiatria infantile che ci aspettavamo dopo il lockdown”, continua l’esperta. Anche Fraticelli ricorda il “sentimento di illusione che la tempesta fosse passata”.  

Poi c’è stata la seconda chiusura, a ottobre-novembre 2021, e questa “ha determinato un’esplosione negli accessi – segnala Conti – E mentre prima i minori che arrivavano avevano tendenzialmente disturbi d’ansia da ripresa della scuola o una serie di fatiche, in questa fase ha prevalso l’aspetto più depressivo, che nei ragazzini si esprime con disturbi del comportamento, autolesionismi, tentativi di suicidio. Abbiamo visto tantissimi disturbi della condotta alimentare. C’è stata un’enorme richiesta, sia come accesso in Pronto soccorso che in ambulatorio”. 

Conti segnala di aver osservato anche “un abbassamento dell’età, parliamo di scuola media o ultimo anno delle elementari. Gli accessi continuano tuttora molto alti: abbiamo circa 30 urgenze ambulatoriali al mese, normalmente ne avevamo meno di 10. Stiamo cercando di rispondere, prima sull’emergenza e poi con la presa in carico ambulatoriale complessiva che segue i tempi delle liste d’attesa”. Covid, riflette però Fraticelli, ha avuto anche “un risvolto inatteso: ha acceso una luce sulle difficoltà e riattivato un’attenzione su questi servizi e la loro importanza”.  

Ai genitori, conclude, “dico che ora bisogna concentrarsi sugli aspetti che creano fiducia. Va descritta come una sorta di ‘normalità’ il fatto di potersi trovare in una condizione di disagio. Se guardiamo invece ai casi di severità clinica, occorre lavorare per cogliere precocemente i segnali di queste condizioni, per esempio depressive. E fare riferimento agli specialisti senza problema. Questo Paese sconta ancora una grande stigmatizzazione di chi chiede aiuto. Ed è il più grande blocco alla possibilità di stare meglio. Credo infine che la vaccinazione stia aprendo una nuova fase, stia dando fiducia. I ragazzi lo hanno capito. Non a caso sono i primi che sono andati a vaccinarsi, quando è arrivata per loro la possibilità di farlo”.  

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